domenica, agosto 19, 2018

"L’INIQUA ASSEMBLEA CHE CONDANNÒ IL MESSIA", di don Agostino e don Giuseppe Lémann


Si Bibla Shêjte, Tradita Katolike dhe traditat e tjera jokanonike, ashtu edhe dishmí të ndryshme të ndershme konfirmojnë jo nji proçes gjyqsor demokratik perfekt nga pikpamja procedurale e formale, por nji pseudo-proçes totalisht të jashtligjshëm, antibiblik, antinjerzuer, kriminel e satanik të Sanhedrinit t'athershëm judaik, të nxitun prej smirës dhe urrejtjes diabolike kundër Shelbuesit dhe Zotit tonë JEZU-KRISHTIT. Dy prej dishmive serioze kundër padrejtsisë së tmerrshme të Sanhedrinit vjen prej meshtarve Lemann (hebrej t'konvertuem) në librin e tyne "Del valore dell'Assemblea che condannò a morte Gesù Cristo" (1877), si dhe prej Maurice Pinay, në librin "Complotto contro la Chiesa..." (1962). Meshtarët Lemann dishmojnë me prova konkrete se Sanhedrini hebraik ishte mbledhë tre herë përpara të Enjtes së Madhe, ku dukej se po mblidhej për herë të parë, për me gjykue e dënue, në mungesë e pa asnji lloj ballafaqimit, Zotin tonë JEZU-KRISHTIN : heren e parë para të Enjtes së Madhe KRISHTI denoncohet si profet i rremë dhe përgaditen shpirtnat për dënimin e Tij me vdekje ; heren e dytë para të Enjtes së Madhe prifti i naltë Kaifa i propozon Sanhedrinit dënimin me vdekje dhe Sanhedrini pranon në unanimitet ; heren e tretë po para të Enjtes së Madhe, arrestimi dhe kryqzimi i JEZU-KRISHTIT u përcaktue prej Sanhedrinit me u krye në momentin ma të parë të favorshëm. Meshtarët Lemann paraqesin prova të sakta si prej Bible ashtu edhe prej vetë ligjeve hebraike në fuqi, të gjinduna në Talmud, apo ma saktë në traditat hebraike të Mischna-s, të cillat konfirmojnë së pakut 27 shkelje të randa gjyqsore në t'ashtuquejtunin proçes gjyqsuer kundër JEZU-KRISHTIT. Për ma shumë detaje ju ftoj me lexue nji pjesë të librit të meshtarve Lemann : “La casa di Caifa, in cui costui ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato dalla più assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per verificarsi nel pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò il sinedrio, di cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari, che dev’essere valutato in maniera definitiva!” Nel corso dell’improvvisato processo a Gesù furono commesse per lo meno ventisette irregolarità contro la legislazione penale e processuale del popolo ebraico. Il libro dei Lémann le pone in evidenza, studiando le ragioni del comportamento di quel sinedrio. I fratelli Lémann, Agostino e Giuseppe, erano gemelli, ebrei, francesi, nati nel 1836, e morti rispettivamente nel 1909 e nel 1915. Sì convertirono al cattolicesimo, furono ordinati sacerdoti e scrissero, fra le altre cose, opere destinate a chiarire la storia cristiana ai loro fratelli di etnia e cultura. Fra queste opere, la presente, breve, concisa, essenziale, molto ben documentata, è uno studio sul Sinedrio, l’assemblea di settantatre membri che condannò a morte Gesù, senza averne la competenza, e costrinse Pilato a pronunciare la condanna effettiva. LETTERA DEL PAPA PIO IX Dilecti Filii salutem et apostolicam Benedictionem. Ex obsequiosis litteris, quas ineunte mense decembri ad Nos dedistis et ex adjecto dono voluminis cui titulus: "Valeur de l’Assemblée qui prononça lapeine de mort contre Jésus-Christ", magis magisque perspeximus incensum studium quo judaïcam gentem convertere ad catholicam veritatem contenditis. Atque haec quidem causa satis erat cur munus vestrum gratum Nobis accideret; verum quo magis eo delectaremur illud etiam accessit, quod ex ipso operis argumento et paucis quae exinde delibavimus, Nobis visum sit catholicis quoque lectoribus utile, cum eo spectet ut pars evangelicae historiae clarius illustretur. Itaque dum zelum vestrum merita commendatione prosequimur et vobis pro exhibitis officiis gratias habemus, Deum humiliter rogamus ut uberem ex laboribus vestris fructum percipiant ii quos maxime adjuvare satagitis; et quoniam juxta Osee vaticinium dies multos sederunt filii Israel sine rege et sine principe et sine sacrificio et sine altari, illud impleri incipiat quod idem subjecit: Et post haec revertentur fiiii Israel et quaerent Dominum Deum suum et David regem suum. Hac spe confisi, testem paternae dilectionis et divinae Benignitatis auspicem Apostolicam Benedietionem vobis peramanter impertimus. +++ Cari figli, salute e apostolica benedizione. La rispettosa lettera che ci avete indirizzato ai primi del passato dicembre e l’offerta del vostro libro intitolato: Valeur de l’assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus-Christ, ci ha confermato sempre meglio del vostro ardente zelo per contribuire alla conversione del popolo ebraico alla verità cattolica. Ciò basterebbe da solo per rendere gradito il vostro dono; ma quel che ci ha ulteriormente rallegrato è l’oggetto in se stesso del vostro saggio, che, dopo averlo letto, ci è parso utile per gli stessi cattolici, poiché si ripropone di illuminare a giorno una parte della storia evangelica. Ragion per cui, mentre rivolgiamo al vostro zelo una meritata lode, nel ringraziarvi delle belle parole che ci avete rivolto, supplichiamo umilmente il Signore di voler concedere che soprattutto coloro a cui indirizzate il vostro lavoro, ne possano trarre frutti abbondanti. E siccome, citando l’oracolo del profeta Osea “i figli d’Israele sono rimasti per lungo tempo privi di re e di principe, privi del sacrificio e dell’altare” (Os 3,4), possa finalmente compiersi quel che il medesimo profeta dice: “Dopo queste cose, i figli d’Israele ritorneranno e cercheranno il Signore loro Dio, e Davide, loro re!”(Os 3,5). Sostenuti da questa speranza, come testimonio del nostro paterno affetto e pegno dei divini favori, vi concediamo affettuosamente la benedizione apostolica. VIOLAZIONE DA PARTE DEL SINEDRIO DI TUTTE LE NORME E DI OGNI FORMA DI GIUSTIZIA NEL PROCESSO A GESÙ (Seduta notturna) Al processo a Gesù vennero consacrate due sessioni. La prima si tenne nel corso della notte del 14 nisan (aprile), e il resoconto ci vien fatto da Giovanni, da Matteo e da Marco: la seconda, convocata al mattino di quello stesso giorno, viene registratata da questi ultimi due, ma soltanto Luca ne fa un dettagliato racconto. Dunque, il sinedrio si è riunito, stavolta però, non in segreto: si tratta di processare il Messia in maniera pubblica. Non è in funzione il sinedrio, come dire l’assemblea delle tre camere che rappresentano l’intera nazione, dei sacerdoti, degli scribi e degli anziani? La cosa dev’essere affrontata pubblicamente. I soldati, preso Gesù, lo condussero al palazzo del principe dei sacerdoti, Caifa, in cui tutti i sacerdoti, gli scribi e gli anziani erano riuniti in assemblea plenaria” (Mt 26, 57; Mc 14, 53). “Era di notte” – precisa Giovanni – : “erat autem nox“. “E la coorte degli aiutanti dei sacerdoti lo condussero, armati di spade e di bastoni, alla luce di lanterne e di torce” (Gv 13, 30; 18, 3). Ecco una prima irregolarità, giacché la legge giudaica proibiva che si giudicasse alcuno nelle ore notturne: “Se si ha per le mani un affare punibile con la pena capitale, lo si tratti durante il giorno, ma lo si sospenda col giungere della notte” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1). Anche il sacrificio vespertino aveva avuto termine, e di qui proviene una seconda irregolarità: “Non siederanno in giudizio che dal mattino sino alla sera” (Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin“, c. 1, 19). Era infine il primo giorno degli azzimi, vigilia della grande solennità della Pasqua, il che costituisce una terza irregolarità: “Non giudicherete alcuno né la vigilia del sabato, né la vigilia di un giorno di festa” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1). PRIMO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA “Nel frattempo Caifa interrogava Gesù” (Gv 18, 19). È Caifa in persona che interroga, quel medesimo Caifa che aveva dichiarato qualche tempo prima, nel corso dell’assemblea generale del sinedrio tenutasi nel suo palazzo a motivo della risurrezione di Lazzaro, che il bene pubblico esigeva imperiosamente la morte di Gesù il Nazareno. È mai possibile? Colui che si è costituito accusatore si permette di sedere in veste di giudice, e ancor peggio, come presidente del processo giudiziale! Siamo di fronte a una quarta irregolarità, una disgustosa irregolarità, poiché tutte le legislazioni umane, e in particolare quella ebraica, rifiutano all’accusatore il diritto di sedere come giudice: “Se […] un testimone comincia a accusare un uomo d’aver violato la legge, in questa lite, essi si presenteranno entrambi dinanzi al Signore, alla presenza dei sacerdoti e dei giudici che saranno allora in funzione” (Deut. 19, 16-17). Di qui si vede come l’accusatore e il giudice debbano essere distinti tra di loro; non dovendosi confondere i ruoli! Qui invece la confusione è evidente: Caifa, che ieri aveva accusato il Cristo, oggi siede nell’assemblea e si accinge a giudicare. Mostruosità giudiziaria, che Giovanni ha tenuto a mettere in risalto soprattutto nel suo racconto della Pasqua: “Caifa era colui che prima aveva dato il consiglio secondo cui il popolo poteva avvantaggiarsi dalla morte di quel solo uomo” (Cf Gv 18,14). “Lo interrogava sui suoi discepoli e sulla dottrina da lui predicata” (Gv 18, 19). Caifa, che è insieme e giudice e accusatore, anziché cominciare col produrre dei testimoni e indicare i capi d’accusa, come esigeva la legge ebraica (“Se si troverà in mezzo a voi un uomo o una donna che sia stato accusato di aver commesso il male davanti al Signore, voi indagherete accuratamente se il suo accusatore è credibile […] e sulla deposizione di due o tre testimoni… ; vedi Deut 17, 2-6), dunque, Caifa, comincia il dibattimento con un interrogatorio capzioso, in modo da poter prendere in fallo Gesù per proprie ammissioni. Tale modo di procedere costituisce una quinta irregolarità, poiché non vi poteva essere niente di più inaccettabile che di fare ammettere alcunché a un uomo sul conto del quale non vi è nulla di cui lo si possa ritenere colpevole. Cosa può esservi di più inaudito che cominciare un processo chiedendo a una persona di accusare se stesso e senza presentargli invece un qualche capo d’accusa! “Gesù gli rispose: ‘Ho parlato in pubblico, ho sempre insegnato nelle sinagoghe e nel Tempio ove si radunano i giudei, senza dir mai nulla in segreto: di cosa dunque mi interroghi? Interroga coloro che mi hanno ascoltato, essi sanno quel che ho detto pubblicamente, e potranno perciò risponderti'” (Gv 18, 20-21). La risposta del Cristo pone in piena luce l’illegalità che Caifa stava commettendo dando inizio all’interrogatorio senza aver formulato contro di lui, preliminarmente, alcun capo d’imputazione. Prima d’interrogare l’imputato, i giudici hanno l’obbligo di produrre qualche preciso capo d’accusa, precisando le imputazioni su cui poi i giudici dovranno pronunziarsi. “Perché non mi interrogate voi?”, o meglio: “Vorreste che io accusi me stesso? Non avete voi qualcosa da rimproverarmi? Se l’avete, presentatemi l’oggetto della mia accusa, e chiedetemi se io lo ammetto. Se invece non avete nulla da ridire sul mio conto né da parte vostra e neppure in base a testimonianze altrui, qualcosa inerente la dottrina da me pubblicamente esposta, come potete pretendere che io mi dichiari colpevole, accusando me stesso? O, in altri termini, non vi rendete conto che agendo così, voi stessi mi assolvete da ogni accusa, e in base alla nostra legge mi assolvete, se vi appoggiate unicamente a una mia eventuale ammissione di colpevolezza?”. “Per noi è norma fondamentale che nessuno può recare pregiudizio a sé stesso [Nemo tenetur laedere seipsum]” (Mishna, trattato “Sanhédrin“, c. 6, 2). “Aveva appena risposto con quelle parole, che un inserviente là presente gli diede uno schiaffo, dicendo: ‘Così rispondi al pontefice?'” (Gv 18, 22). In questa inaudita brutalità da parte di un servo del tribunale alla presenza del presidente e dei giudici vi è una sesta irregolarità. È infatti un’ingiustizia che grida vendetta al cospetto del cielo il permettere, presidente e giudici, che in loro presenza si osi maltrattare senza motivo né autorizzazione l’imputato comparso in tribunale. Non si ordina forse, in tutte le legislazioni civili, che chiunque sia accusato debba godere della protezione della legge e dei giudici, fintanto che la sua colpa non sia stata dimostrata? Qui, il silenzio che accompagna l’ingiusta aggressione e l’impunità concessa all’inserviente facile a menar le mani, sono un’ulteriore riprova che quell’assemblea ratifica e accetta l’illegalità. Sono prove evidenti della non equità dei giudici e in particolare di colui che presiedeva. Poiché se la Bibbia e la Mischna ingiungono d’impiegare nei confronti dell’accusato modi ispirati all’umanità e alla benevolenza (“Figlio mio, confessa la tua colpa […]. Mia cara figlia, qual’è stata la causa del tuo peccato?” (Gs 7, 19). – Mischna, trattato “Sota“, c. 1, 4), a maggior ragione viene a essere proibito ogni ricorso a una violenza ingiusta e alla brutalità. “Gesù gli rispose: ‘Se ho detto qualcosa di male, dimmi dove ho sbagliato; se invece parlo bene, perché mi percuoti?'” (Gv 18, 23). Voleva dire: “Se mi sono espresso male contro il pontefice o contro la verità, dimmi dove ho mancato, fammelo capire. Ma se invece non l’ho offeso in alcun modo, né ho detto cose palesemente contro la verità; se mi sono limitato a indicare, com’era mio diritto, l’ordine naturale del procedere ma senza usare parole offensive contro nessuno, allora perché mi picchi?”. Cristo avrebbe potuto anche usare parole assai più forti non solo contro quell’indegno inserviente, ma contro il sommo sacerdote che, da presidente, autorizzava tranquillamente una così violenta reazione. “Se non lo fece, fu perché non voleva disonorare il sacerdozio nemmeno in una persona che cosi indegnamente ricopriva quell’alto incarico. Tuttavia non mancò di difendere con forza dignitosa la propria innocenza” (San Cipriano, “Epist. 55 ad Corn.“, p. 144). DEPOSIZIONE DEI TESTIMONI “Nel frattempo i principi dei sacerdoti e l’intero consiglio cercavano un falso testimone contro Gesù per aver di che condannarlo a morte, ma essi non riuscivano a trovarne, di validi, sebbene diversi si fossero presentati [con quell’intento]”, (Mc 14, 55. – Mt 26, 59-60). Dopo la risposta di Gesù, che aveva fatto formale richiesta che si sentissero eventuali testimoni, diventava impossibile condannarlo se non ci fosse stato nessun testimone a deporre contro di lui. Cosa fa a quel punto il sinedrio? Sguinzaglia tra la folla degli incaricati per cercare gente disposta a giocare quel ruolo; si giunge perfino a subornare qualcuno di pochi scrupoli. È una mostruosa iniquità! Commettendo una settima irregolarità non solo ci si astiene dall’esaminare con cura la qualità e credibilità dei testimoni e la verità di quel che avrebbero dichiarato ma si arriva, ed è un’ottava irregolarità, a violare la legge fondamentale che prescriveva ai giudici nel far prestar giuramento ai testimoni, di non dire null’altro che la verità: “Bada che su di te pesa una grave responsabilità…” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 5). Ma v’è di peggio: quei giudici iniqui, subornando falsi testimoni, cadono anch’essi sotto i colpi minacciati dalla Legge, che faceva loro espresso obbligo di punire i falsi testimoni: “Li tratteranno come se avessero macchinato di tradire un loro fratello; vita per vita, dente per dente, occhio per occhio!” (Deut 19, 18,19. 2 1). Eppure essi violano apertamente quella legge, sia essi stessi, sia inducendo a violarla altre persone. È la nona irregolarità! Possiamo affermarlo: non siamo più di fronte a dei giudici ma a un raduno di omicidi, assetati del sangue di un giusto. Nulla può servire da paragone se non quell’altra iniquità che venne compiuta per ordine di Gezabele, quando si trattò di condannare l’innocente Naboth. “Essa scrisse lettere a proposito di Naboth, col sigillo del re. Poi le inviò agli anziani e agli uomini principali della città in cui Naboth abitava. Nelle lettere scrisse: ‘Bandite un digiuno e fate sedere Naboth in prima fila tra il popolo. Di fronte a lui fate sedere due uomini iniqui, i quali l’accusino dicendo: ‘Hai maledetto Dio e il re!’ Quindi conducetelo fuori e lapidatelo ed egli muoia’. Gli uomini della città, gli anziani e i capi che abitavano nella sua città, fecero come aveva ordinato loro Gezabele, ossia come si ordinava nelle lettere che aveva loro spedito. Bandirono il digiuno e fecero sedere Naboth in prima fila tra il popolo. Vennero due uomini iniqui, che si sedettero di fronte a lui. Costoro accusarono Naboth davanti al popolo affermando: ‘Naboth ha maledetto Dio e il re!’ Allora lo condussero fuori della città e lo uccisero lapidandolo” (1 Re, 21, 8-14). Ma proseguiamo nella deposizione dei testimoni. “Molti attestavano il falso contro di lui ma le loro testimonianze contro di lui non erano però concordi. Alcuni si alzarono per testimoniare il falso, dicendo: ‘Noi lo abbiamo udito mentre diceva: Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne edificherò un altro non fatto da mani d’uomo’. Però nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde” (Mc 14, 56-61). – cf Mt 24, 60). Prima di esaminare questa doppia deposizione nettamente formulata, cominciamo col segnalare una decima irregolarità: due testimoni si presentano e depongono assieme, il che è contro la legge. I testi infatti non dovevano deporre se non separatamente l’uno dall’altro: “Separateli tra loro, quindi li esaminerete” (Dan 13, 51). E veniamo al contenuto delle deposizioni. Stavolta sarebbero state d’importanza capitale. Sappiamo quanto il popolo giudaico fosse geloso della gloria rappresentata dal Tempio. Per aver annunziato che “Dio ridurrà un giorno il Tempio nelle stesse condizioni di Silo, ossia in un deserto” (Ger 26, 6. 19), Geremia aveva rischiato d’essere lapidato dai sacerdoti e dal popolo; se era scampato da una morte sicura, ciò fu dovuto all’intervento di possenti signori, che avevano influenza sul tribunale. L’accusa formulata contro Gesù dai due testimoni era di sicuro della massima gravità. L’attenzione dell’intero sinedrio si ravvivò, e si cominciò a sperare d’aver trovato infine un motivo sufficiente per convincere i giudici di una sua colpevolezza e di poterlo giuridicamente condannare. Ciò a patto che la deposizione dei testimoni fosse stata vera e concorde. Ma lungi dall’avere tali qualità rigorosamente esigite dalla legge ebrea, ciascuna delle deposizioni, come vedremo, si rivelò falsa e discorde tra loro. Erano false perché: 1°) – Non riferivano in realtà le parole pronunziate dall’autore. Gesù infatti non aveva detto né “io posso distruggere”, né “io distruggerò” – come avevano affermato i due testi, per gettare gravi ombre su di lui – ma “distruggete!”. “Distruggete questo tempio e io lo ricostruirò entro tre giorni!” (Gv 2, 19); parole ipotetiche, insufficienti a costituire un carico serio contro l’imputato, poiché esse potevano significare: “Supponete che questo tempio venga distrutto, ecc.”. Orbene, per poter fornire al sinedrio che era impaziente di sentirlo accusare di un delitto davvero grave e punibile con la morte, i testimoni cercano di porre, inutilmente, sulle labbra del Cristo queste parole, assolute e minacciose: “Io posso distruggere, io distruggerò!” 2°) – Poi i testimoni erano falsi anche perché attribuivano alle parole del Cristo un senso del tutto diverso da quello inteso da lui. Gesù infatti, nel pronunziare la frase, aveva fatto allusione al tempio vivo che era il suo corpo, ed era perciò lontanissimo dal far riferimento al tempio materiale di Gerusalemme. Giovanni, che le aveva sentite di persona, lo afferma espressamente: “Egli intendeva parlare del proprio corpo” (Gv 2, 21). Del resto, per esserne pienamente convinti, basterà esaminare le parole precise usate dal Cristo. Proprio per non lasciare spazio al minimo dubbio circa la propria intenzione, Gesù aveva usato la parola “solvite“, termine che i falsi testimoni vorrebbero far equivalere a “distruggere” ma che, nella sua più ovvia e naturale accezione sta per “rompere i legami: sciogliere”. È chiaro il riferimento al corpo animato, tempio vivo, di cui si può rompere o sciogliere il legame con l’anima mediante la morte; e dunque ogni riferimento al tempio materiale è del tutto abusivo. Però quel che conferma definitivamente il vero senso inteso dal Cristo, lo si ricava dalle parole finali di quella frase: “E in tre giorni io lo farò risorgere. Lo richiamerò in vita!”. Se insomma Gesù avesse inteso alludere al tempio materiale di Gerusalemme, si sarebbe servito delle parole “distruggere” e “riedificare”; ma siccome egli non aveva in mente nient’altro che il tempio mistico che era il suo sacro corpo, egli aveva volutamente usato i termini “rompere i legami” e “risuscitare”. Il parallelismo di queste espressioni, impiegate a ragion veduta, dovrebbero essere sufficienti per discolpare Gesù da ogni intenzione iconoclasta, il cui oggetto sarebbe stato il Tempio di Gerusalemme. E la conclusione, relativamente ai testimoni, non poteva essere che la seguente. Delle due, l’una: o avevano capito male la frase detta da Gesù (come l’avevano fraintesa altri giudei, lì presenti, che avevano ribattuto: “Questo Tempio è stato costruito in quarantasei anni, e tu lo ricostruiresti in soli tre giorni?!”), oppure ne avevano afferrato benissimo il pensiero, ma con maligna intenzione lo stavano presentando in tutt’altro senso da quello in cui era stato detto. E allora essi erano doppiamente dei falsi testimoni: perché non solo attribuivano a Gesù le parole “io posso distruggere!”, “io distruggerò!”, mai pronunziate né intese dal Cristo, ma ancora perché riferivano in malafede al Tempio di Gerusalemme parole che non si riferivano a esso. In sostanza, perché consapevolmente falsano il significato di quelle parole. Ma v’è di più. Anche nel caso che essi avessero deposto il vero e Cristo avesse realmente pronunziato le parole che essi gli ponevano sulla bocca, la loro deposizione non poteva essere giuridicamente accettabile. E diciamo subito il perché. Stando alla legge ebraica, “una testimonianza perdeva ogni suo valore se chi la faceva non era d’accordo con essa in tutte le sue parti” (Mischna, trattato “Sanhédrin” 5, 2). Se ad esempio si trattava del crimine d’idolatria, ritenuto il peggiore dall’antico stato giudaico, “se un testimone assicurava di aver visto un israelita adorare il sole, mentre un secondo dichiarava di averlo visto in adorazione della luna, sebbene entrambi i particolari facessero pensare a riti idolatrici, la prova era da scartare come incompleta, e l’accusato veniva rimesso in libertà” (Maimonide, trattato “Sanhédrin” c. 20 e sgg.). Qualcosa del genere si ripeteva nel caso dei due falsi testimoni alzatisi ad accusare il Cristo, alla presenza dei giuristi del sinedrio. Sostenendo che Gesù aveva detto: “Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo”, il primo di essi gli attribuiva il disegno di attentare contro la religione e contro un bene del patrimonio nazionale; mentre dall’altra deposizione “Io posso distruggere il tempio di Dio” del secondo testimone si poteva solamente indurre a pensare in una parola uscita dalla bocca di un fanfarone o megalomane. Dunque non vi era conformità tra le due testimonianze, come fa notare opportunamente S. Marco (“Nemmeno su questo punto la loro testimonianza era concorde” – Mc 14, 59), di conseguenza, a meno di commettere un’undicesima irregolarità, Gesù aveva ogni diritto d’essere rimesso in libertà, pienamente assolto! SECONDO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA E invece, detta undicesima irregolarità venne realmente commessa. Anziché scartarle come gli imponeva un’equa amministrazione della giustizia, Caifa prende per buone le discordanti deposizioni, e ne fa anzi il punto di partenza d’un secondo interrogatorio. “Allora il sommo sacerdote, levatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo:’Non rispondi nulla? Cosa testimoniano costoro contro di te?'” (Mc 14, 60). Era come dirgli: “Non ti rendi conto della gravità delle accuse che ti rivolgono costoro? Perché te ne stai zitto. Parla, dunque…” Caifa attendeva che il Cristo, toccato nell’amor proprio, desse delle spiegazioni e fosse condotto dalle sue stesse parole dove magari non avrebbe voluto. “Ma egli continuava a tacere, e non rispose nulla” (Mc 14, 61). La causa di Gesù si difendeva da sé, ed egli non aveva da far nulla per tutelarla. Avendo fatto allusione non al Tempio materiale di Gerusalemme bensì al mistico tempio del proprio corpo, la spiegazione della frase incriminata la si poteva trovare unicamente nel significato letterale delle parole da lui dette e non già nelle ambigue allusioni attribuitegli dai falsi testimoni. Quanto a Caifa, Gesù non gli risponde parola per fargli comprendere che aveva inteso quale fosse il suo gioco. Il suo silenzio era un rimprovero fin troppo eloquente. In quel momento si stava compiendo una profezia di Davide: “Coloro che cercano un pretesto per togliermi la vita e vorrebbero perdermi affermando falsità, non pensano che a tendermi tranelli. Ma io sarò verso di loro come un sordo che non sente quel che gli dicono, e come un muto che non apre bocca” (Sal 37, 13 -15). È stupefacente che questo tranquillo e maestoso silenzio di Gesù non abbia aperto gli occhi ai giudici. È davvero cosa assai strana restarsene in silenzio dinanzi a situazioni in cui si sta correndo il rischio d’essere messo a morte! Tra non molto Pilato, quantunque sia pagano, resterà colpito da un analogo, maestoso silenzio che il Cristo manterrà in sua presenza; verrà assalito dal dubbio e dal rispetto per quell’uomo, e farà non pochi sforzi per cercare di risparmiargli la vita. Ma qui Caifa e il sinedrio, anziché riconoscere dal volontario silenzio Colui di cui aveva profetizzato Isaia, proprio riferendosi al silenzio e all’atteggiamento remissivo: “Egli resterà in silenzio come un agnello davanti a chi lo tosa” (Is 53,7), Caifa e l’assemblea si sentono invadere da un crescente furore. Vogliono far cessare quel silenzio accusatore che li confonde e li domina. Occorre trovare un via d’uscita! Una via che consenta di porre termine a quell’assurda situazione. E Caifa alla fine riuscirà a trovarla… TERZO INTERROGATORIO DI GESÙ DA PARTE DI CAIFA “Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò, dicendogli: “Ti scongiuro per il Dio vivente, di dirci se tu sei il Messia, l’Eletto, il figlio di Dio benedetto!” (Mc 14, 6 1; Mt 24, 63). Una cosa della massima importanza da tener presente è che ha avuto luogo un improvviso cambio nel capo d’accusa. Infatti non si parla più né di testimoni né di testimonianze; Caifa, per così dire, le ha buttate nel cestino della carta straccia e, tutto a un tratto, riconosce insufficienti tutte le deposizioni così affannosamente cercate e esposte fin allora con pessimi risultati; egli confessa, data la medesima necessità in cui si vede stretto d’interrogare egli stesso Gesù, che non possedeva uno straccio di prova da produrre contro di lui. Ma allora, ci si chiede, perché Gesù è li davanti a lui e al sinedrio strettamente legato? Perché lo si è trascinato davanti all’assemblea come un malfattore, se ancora non si sa praticamente nulla di lui, e ci si sforza di ottenere queste informazioni dalla sua stessa voce? I testi e le loro fasulle deposizioni dunque sono state scartate. Cambio di scena, in cui ha rilievo soltanto lui, Caifa. Lui, già giudice e presidente del tribunale, si abbassa al rango dei testimoni e assume per la seconda volta il ruolo di accusatore. Ma nel dichiararsi fino a quel punto contrario a Gesù, mentre che le sue funzioni istituzionali gli vieterebbero ogni altra cosa che non sia quella d’essere giudice sia sulle accuse, sia sulla difesa dell’imputato, ecco profilarsi una dodicesima irregolarità. E subito appresso, una tredicesima, che si trova nella richiesta supplicante che rivolge al Cristo: “‘Ti scongiuro per il Dio vivente, di dirci se tu sei il Cristo!” Questa impegnativa richiesta avrebbe dovuto venir rivolta ai testimoni, per scongiurarli di dire solo la verità. Lo esigeva la Legge: “Bada che ti stai caricando di una grave responsabilità [ … 1 Se tu facessi condannare ingiustamente l’accusato, Dio te ne chiederà conto, come lo richiese a Caino del sangue di Abele! ” (Mischna, trattato “Sanhédrin” c. 4, 5). Ma se il giuramento era obbligatorio per i testimoni, non era consentito all’accusato poiché lo avrebbe messo nell’alternativa di essere sper-giuro o di incriminare sé stesso: “Per noi è basilare che nessuno possa arrecare danno a sé stesso” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c.. 6, 2). Ora, in quell’iniquo processo non era stato richiesto alcun giuramento dai testimoni, e lo si esige dall’accusato! Questa grave infrazione alla morale e alla giurisprudenza, un profeta l’aveva preannunziata e stigmatizzata [e di ciò portiamo di seguito due versioni:, che però fondamentalmente concordano]: “Ti han sempre sulla bocca, o mio Dio, nella speranza di riuscire nei disegni criminosi. Sono tuoi nemici, e osano ugualmente invocare il tuo nome! ” (dalla Volgata) “Essi parlano di te nei loro letti infamanti e giurano il falso nelle tue città” (la moderna versione della Cei). (Sal 138, 20). Riguardo all’interrogazione, nel suo contenuto, non era altro che un trabocchetto da parte di Caifa. Chiedendo a Gesù che, nel nome del Dio vivente, dichiarasse se era o meno Figlio di Dio, Caifa prevedeva che, qualunque fosse stata la sua risposta, non poteva avere per conseguenza se non la pena di morte. Infatti, se Gesù (pensava Caifa) nega d’essere Figlio di Dio, sarà condannato in quanto impostore poiché pubblicamente aveva insegnato il contrario. Se invece avesse osato dichiararsi Figlio di Dio, la condanna non era meno sicura, perché si sarebbe reso colpevole di bestemmia. Dunque la negazione era un crimine, e del pari l’ammissione. Gesù diede questa risposta: “Lo sono, come hai detto tu!” (Mc 16, 61-62). Gesù si inchina dinanzi alla maestà di Dio, perfino sulle labbra del sommo sacerdote. Egli cede a una domanda di cui conosce la recondita malizia, ma che è rivestita di ciò che vi è di più augusto nella religione. Non si era ingannato circa la simulazione del pontefice, ma egli vuole onorare il nome divino di cui quell’uomo si serve per nascondere la propria malizia. LA CONDANNA PRONUNZIATA DAL SINEDRIO “Allora il principe dei sacerdoti si strappò le vesti, dicendo: ‘Ha bestemmiato! A questo punto, abbiamo ancora bisogno di testimoni? Tutti voi avete appena adesso sentito la bestemmia. Che ve ne pare?” (Mt 24, 65-66). Siamo ormai al sipario che cala, mentre le irregolarità quasi non si contano più. Il sommo sacerdote si strappa le vesti. Un giudice che si irrita fino al punto di lacerarsi l’abito pontificale! Non vi è solo una quattordicesima irregolarità in materia di giustizia, ma il venir meno a quella dolcezza e a quel rispetto che la legge prescriveva al giudice nei confronti dell’accusato, [e qui riportiamo un testo già più volte citato]: “Figlio mio, ammetti la tua colpa [ … I. Mia cara figliola, qual’è la causa che ti indotto in peccato?” (Gs 7, 19. – Míschna, trattato “Sota” c. 1, 4). E vi è inoltre violazione della legge religiosa, che espressamente proibisce al sommo sacerdote di strapparsi le vesti. Tale gesto poteva essere compiuto da qualunque ebreo, in segno di grande dolore. Ma non era consentito al grande pontefice: glielo proibiva un divieto assoluto poiché le sue vesti, stabilite da Dio, erano figura del sacerdozio in sé stesso: “Il pontefice, cioè colui che rappresenta il sommo sacerdote tra i suoi fratelli, sulla cui testa è stato versato l’olio dell’unzione, le cui mani sono state consacrate per compiere le funzioni sacerdotali ed è rivestito dei santi abiti, non strappi mai queste sue vesti” (Lev 21, 10). Strappa le tue vesti, Caifa! Non sarà trascorso un giorno, che il velo del Tempio lo sarà del pari, per far capire a tutti che il sacerdozio d’Aronne e il sacrificio della Legge di Mosè sono stati ormai aboliti, al fine di lasciare spazio all’eterno sacerdozio del Pontefice della Nuova Alleanza! “Costui ha bestemmiato!’. In questo grido convergono due nuove irregolarità. Una quindicesima poiché in quel modo si incriminava la risposta dell’accusato prima di aver concluso l’esame. La risposta era stata data negli stessi termini in cui Caifa aveva avanzato la domanda. Aveva chiesto a Gesù: “Sei tu il figlio di Dio?” e Gesù aveva risposto: “Lo sono”. Doveva a quel punto esaminarsi se il Cristo diceva il vero: lo esigeva l’equità. Comandate che vengano presentati i libri santi, apriteli dinanzi al tribunale, richiamate alla memoria a uno a uno tutti i caratteri del Messia, cercate soprattutto se egli debba essere Figlio di Dio. Fatto questo, confrontate gli elementi raccolti dalla Scrittura e raffrontateli con l’uomo che vi sta davanti, e che si proclama figlio di Dio. Se di tutti gli elementi annunziati dai profeti ne mancasse anche soltanto uno, allora sì, potete dire, anzi dichiarare solennemente che egli ha bestemmiato! Ma incriminare la sua risposta prima di averla sottoposta a una sia pure superficiale indagine, non equivale a commettere un atto iniquo e palesemente odioso? Non è un insultare la giustizia? Non è violare i più elementari doveri del vostro incarico, che è quello di esaminare per bene ogni cosa? “Quando, dopo un approfondito esame – dice il Deuteronomio – voi avrete riconosciuto, ecc (Deut 19, 18). Avete sentito? “Dopo un esame accurato!” E qui, invece, non vi è nemmeno l’ombra di un qualsiasi esame! I giudici soppeseranno ogni cosa nella sincerità della propria coscienza”, aggiunge la Mischna (trattato “Sanhédrin” 4, 5), ma qui in cambio la coscienza viene a essere soffocata… L’altra irregolarità, la sedicesima, commessa da Caifa quando grida: “Ha bestemmiato!”, sta nel fatto che egli si permette di prevenire i pareri degli altri giudici li presenti. Qualificando di bestemmia la risposta dell’accusato, egli priva di ogni libertà nel suffragio che competeva ai giudici subalterni. “Io assolvo” oppure “Io condanno” doveva essere, secondo la Mischna (trattato “Sanhédrin” c. 5, 5), la formula mediante cui esprimere il proprio voto. Gridando invece “Egli ha bestemmiato!”, Caifa non lascia più ai suoi colleghi la possibilità di emettere una diversa opinione, poiché l’autorità del sommo sacerdote era, presso i giudei, ritenuta infallibile. Eccolo però farsi ancor più ingiusto: “Che bisogno abbiamo noi di testimoni?” Come! Un giudice che osa proclamare che si può fare a meno di testimoni, mentre è la Legge che lo esige! Non sa forse che la Legge spesso scende fino ai dettagli più piccoli? Non ha forse determinato che a ciascun testimone dovranno essere poste sette precise domande? Le abbiamo viste di già, però qui tornano assai utili. “Era l’anno del giubileo? O era invece un anno ordinario? In che mese la cosa ha avuto luogo? In quale giorno del mese? A che ora? Dov’è successo? Si tratta di questa persona qui?” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 5, 1). Ma Caifa, che non attende altro che di vederlo condannato e al più presto, calpesta l’intera procedura processuale, e quel che è peggio, addirittura la sopprime: ed è una diciassettesima irregolarità. E ne commette subito appresso un’altra: “Cosa ne pensate di costui?”. Nulla vi era di più irregolare che chiedere che il suffragio venisse espresso pubblicamente e in generale. “Ciascuno parlerà quando sarà il suo turno – dice la Mischna -, i giudici si esprimeranno per assolvere o condannare” (trattato “Sanhédrin” c. 15, 5). Ciascuno al suo proprio turno, Caifa! Tu invece fai emettere una condanna, e tutti in massa! E poi, quale amara derisione! Dopo essersi stracciate le vesti con le espressioni dell’orrore più profondo; dopo aver, con quel gesto, trasmesso agli astanti una sorta di terrore religioso; dopo aver qualificato come orribile bestemmia la risposta di Gesù; dopo aver dichiarato che non c’era più bisogno di nuove testimonianze per condannare quest’uomo alla pena capitale, chiedere ai propri colleghi cosa gliene sembrasse, non è la più amara delle derisioni? E la risposta del sinedrio fu quella che egli aveva previsto. Tutti risposero: “È degno di morte!” (Mt 26, 66; Mc 14, 64). Quante irregolarità in questa sentenza! Eccone una diciannovesima, perché non vi fu nessuna deliberazione legale e i giudici, andando dietro all’asserzione di Caifa, espressero precipitosamente una sentenza di morte: “dopo aver giudicato la questione, i giudici si riuniranno e riprenderanno tra loro l’esame della causa” (Míschna, trattato “Sanhédrin“, c. 5, 5). Vi fu ancora una ventesima irregolarità, poiché la sentenza è stata emessa lo stesso giorno in cui il processo aveva avuto inizio, mentre che, stando alla Legge, essa doveva essere differita all’indomani. “Ogni giudizio criminale può aver termine nel medesimo giorno d’inizio se la sentenza è favorevole all’imputato. Ma se dovrà essere eseguita una condanna a morte, il processo non potrà dirsi concluso se non il giorno appresso” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 1). Ed ecco una ventunesima irregolarità, poiché i due scribi segretari non avevano raccolto i voti, e addirittura i giudici non avevano votato: “Ad ognuna delle estremità del sinedrio prendevano posto dei segretari incaricati di raccogliere i voti: uno, quelli che assolvevano; l’altro, quelli che condannavano” (Mischna, trattato “Sanhédrin“, c. 4, 3). Ecco come si svolse quella sessione notturna, profeticamente descritta in un oracolo pronunziato da Davide: “Un’assemblea di malvagi mi ha trascinato in mezzo a essa. Uomini peccatori si sono dati appuntamento, aspettando solo l’occasione buona per perdermi” (sal 21 e 118). Ventuno irregolarità vennero commesse quella notte, e non un solo giudice si levò a protestare. E quel che sottolinea il Vangelo: “Omnes – ossia tutti -, gridarono assieme: ‘Merita la morte!'” (cf Mc 14, 64). Non è senza motivo che l’evangelista rimarcò la cosa. Equivale a un’esclamazione sentenziosa, come un gemito di dolore per uno scandalo, come un mettere in risalto una grande sorpresa. Essa significa che è stupefacente che, tra le settantadue persone che avrebbero dovuto essere presenti in un’assemblea plenaria del sinedrio, non se ne sia trovata una sola con quel minimo di coscienza e di coraggio per protestare contro una così illegale e inaudita maniera di procedere. I partecipanti all’assemblea erano devoti e forse succubi di Caifa, e corrotti al pari di lui. Così, non vi fu alcuna protesta contro quel cumulo di irregolarità. Nessuna voce, neppure una, a favore della sua difesa. E dire che la Legge giudaica autorizzava chiunque a prendere la parola a favore dell’imputato; era un intervento considerato come un atto di attenzione misericordiosa: “Quando io mi recavo alla porta della città [per giudicare chi avesse bisogno], ero capace di spezzare le mascelle all’ingiusto, strappandogli la preda di bocca” (Gb 29, 16-17) Però va detto che in quella seduta notturna, gli unici due membri del sinedrio che avrebbero sicuramente preso la parola in favore dell’accusato – Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo -, non erano presenti! Essi si erano rifiutati di partecipare a una seduta irregolare, che si era voluto convocare nottetempo e alla vigilia della solennità pasquale. Anche se già in anticipo potevano dichiararsi sicuri che le loro voci non sarebbero state ascoltate (già in un precedente consiglio la protesta di Nicodemo era stata sdegnosamente respinta: “Numquid et tu Galileus es?[ossia]: per caso sei anche tu seguace del Galileo [Gesù]?”; Gv 7, 52), entrambi si erano dissociati dai disegni e dagli atti illegali del sinedrio. Il Vangelo lo dice espressamente di Giuseppe d’Arimatea: “Egli non aveva aderito alla decisione e all’operato degli altri […] e aspettava il regno di Dio” (Lc 23, 50-51). Non possiamo dubitare che la medesima cosa si sarebbe potuta ripetere di Nicodemo, che aveva preso coraggiosamente le difese del Cristo. Così, il povero accusato rimase lì in mezzo, solo e senza nessuno che cercasse di difenderlo. Quando gli undici figli di Giacobbe si accordarono di mettere a morte Giuseppe, due di essi, Ruben e Giuda, presi dai rimorsi, alzarono la voce per dire almeno: “Sarà meglio che lo vendiamo agli ismaeliti, senza macchiarci le mani, poiché alla fin fine è nostro fratello e partecipe della medesima carne” (Gn 37, 27). E quando il traditore Achitofel persuase nel consiglio presieduto da Absalon di perseguitare e far morire Davide, uno straniero, Cusai d’Arachi, prese le difese dello sfortunato monarca, tradito dai propri sudditi e inseguito dal proprio figliolo (2 Sam 15, 32 e 17, 1-14). Qua invece, non una sola voce si leva compassionevole in favore di colui che era nostro fratello più che Giuseppe, più re e padre che Davide. Il povero innocente vide compiersi alla lettera la profezia annunziante che sarebbe stato abbandonato alla più completa indifferenza: “Sono caduto in oblio come un morto” (Sal 30,13). Allorché il sinedrio, interpellato da Caifa, ebbe dichiarato all’unanimità che Gesù meritava la morte, si fece segno alla soldataglia di prenderlo in consegna e di custodirlo a vista per il resto della notte. E una strana scena ebbe luogo. “Gli sputavano in viso e lo colpivano con dei pugni; altri gli bendarono gli occhi e dopo averlo schiaffeggiato, gli chiedevano: ‘Cristo, fa’ il profeta e dicci chi ti ha colpito adesso?'” (Mt 26, 67-68; Mc 14, 65). Quindi, dopo la condanna, Gesù fu abbandonato ai soldati e agli uomini della polizia, lasciandoli liberi di sfogare sulla sua persona ogni specie d’oltraggi che avessero voluto. Più di un autore ha considerato quella notte crudele come uno dei tormenti maggiori dell’intera Passione sofferta da Gesù Cristo. Una cosa à certa: che dal punto di vista giuridico, vi fu una vera e propria scelleratezza. In tutte le nazioni civili, un condannato, per quanto possa essere criminale, fino al momento dell’esecuzione resta sotto la protezione della legge; e mai si è visto dei giudici tollerare che da parte dei soldati e delle forze dell’ordine tali e tanti eccessi rivoltanti contro non solo la giustizia, ma la natura e la stessa ragione umana. Essendo tale enormità compiuta al termine della seduta notturna, potremmo aggiungere ulteriori irregolarità al numero di quelle di già registrate. Ma vergogna, mille volte vergogna a Caifa che, tollerando che quell’abuso e quegli eccessi si verificassero nella sua stessa casa, assunse sul proprio capo qualcosa che superò le villanie compiute dai Filistei contro la persona di Sansone (Gdc 16, 25). Come Sansone, che di Lui era stato figura, così il Cristo venne circondato da gente che, facendosi beffe della sua disgrazia, si divertì a sputargli in viso, facendolo oggetto di scherzi volgari. Si consentì che chiunque lo potesse insultare, colpire, saziandosi degli obbrobri che poterono escogitare. Ma in quelle ore si stavano compiendo delle altre profezie: “Non hanno avuto vergogna di sputarmi in faccia”, aveva scritto Giobbe, riferendosi al Messia; “mi han fatto mille oltraggi, mi han colpito vergognosamente, si sono – in una parola – saziati dei miei tormenti!” (Gb 16,11; 30,10). VIOLAZIONE DA PARTE DEL SINEDRIO DI OGNI NORMA GIURIDICA (Seduta del venerdi mattina) “Dal mattino presto, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedríio dopo aver tenuto consiglio, strinsero in catene Gesù, al fine di metterlo a morte, e lo consegnarono a Pilato (Mc 15, 1; cf. Lc 22, 66; Mt 27, 1)”. Caifa e i membri del sinedrio avevano ogni interesse a che l’illegale procedura notturna e la condanna pronunziata contro Gesù non apparisse macchiata d’irregolarità. Di irregolarità, come s’è visto, ne erano state commesse a non finire, e era sempre possibile che dal popolo si levassero a un tratto voci di protesta: quella riunione notturna, del tutto inusitata, i testimoni che si erano contraddetti, quel giudizio precipitoso, ecc. D’altra parte, approfittando di una rinnovata confessione dell’imputato si sarebbe potuto rinnovare con ogni solennità possibile la sua condanna. Perciò l’intero sinedrio si radunò il mattino presto per decidere contro Gesù, e mandarlo a morte. Però, attenzione. Non si trattava di rivedere la sentenza pronunziata poche ore prima. Gesù è condannato, irrevocabilmente condannato. Si tratta unicamente di avviarlo a morte cercando di rispettare certe forme di giustizia e un apparato legale che possa chiudere la bocca al popolo. Resta solo da trovare una forma giuridica adatta; e vedremo che, rimanendo sempre nella più ampia illegalità, si aggiungeranno nuove irregolarità a quelle di già accumulatesi nella seduta notturna. ‘Fin dall’alba di quel gran giorno di festa, il sinedrio si riunì” (cf Mc 15, 1; Lc 22, 66), e da questa riunione precipitosa scaturisce una ventiduesima irregolarità. Infatti era vietato di incominciare una riunione prima che avesse avuto termine il sacrificio del mattino: “Si raduneranno dopo il sacrifico del mattino, fino all’ora in cui inizierà quello della sera” (Talmud di Gerusalemme, trattato “Sanhédrin” cap. 1, 19). Riunendosi fin dalle prime ore del giorno, i giudici non avevano atteso la fine del primo sacrificio, dato che questo sacrificio iniziava precisamente all’alba di un nuovo giorno (per fissare il tempo del sacrificio, la Bibbia si limita a parlare di “mattino” e di “sera”: “Voi sacrificherete ogni giorno, senza eccezioni, due agnelli di un anno, uno al mattino e l’altro la sera” (Es 29, 38-39). Ma lo storico Giuseppe Flavio fornisce particolari precisazioni: “La Legge ordina che si immoli ogni giorno due agnelli d’un anno, quando comincia la giornata, e quando essa termina”; “Antiq.” L. 3, c. 10, 1), e occorreva almeno un’ora perché la vittima potesse dirsi immolata, scuoiata, offerta e consumata tra le preghiere d’uso. Dunque era stato in un’ora indebita che il sinedrio si era riunito. E inoltre, era quel giorno la grande solennità di Pasqua, in cui ogni giudizio era rigorosamente interdetto. Se infatti era stato vietato ogni processo di sabato (“Non si giudicherà di sabato, né in altro giorno festivo” – Mischna, trattato “Betza“, c. 5, 2), a più forte ragione tale divieto valeva in un giorno tanto solenne qual’era quello della Pasqua. Perciò ecco una ventitreesima irregolarità. Origene, uno dei più celebri commentatori della Bibbia, riportando queste parole del Signore ai giudei contemporanei d’Isaia: “Io detesto le vostre festività, non riesco a sopportarle” (Is 1,14), aggiunge, con ragione, “Fu profeticamente che Dio fece dire di aver in orrore le feste della Sinagoga, poiché, mettendo a morte Gesù in giorno di Pasqua, i giudei hanno commesso un crimine” (“Comment. in Joan.“). NUOVO E SOMMARIO INTERROGATORIO DI GESÙ “Lo condussero davanti al sinedrio, e gli chiesero: ‘Se tu sei il Cristo, diccelo'” (Lc 22, 66). Vale la pena ribadirlo di nuovo: il precedente sistema procedurale è stato completamente abbandonato. Non ci si sforza di cercare e far venire avanti nuovi testimoni; non si fa più conto di parole contro Gesù che egli non aveva potuto pronunziare. Un tale modo di procedere si era rivelato inefficace la sera avanti, e ormai il sinedrio si è reso conto che tornando su quella via non potrà ottenere quel che si era proposto. Sa anche che Gesù non mentirà mai né a se stesso, né ad altri, e che se gli fosse posta di nuovo la stessa domanda, si potrà dalla sua risposta trovare conferma per la sentenza di condanna. “Gesù rispose loro: ‘Se ve lo dicessi, non mi credereste, e se vi interrogassi, non potreste rispondermi. A ogni modo, d’ora in poi il Figlio dell’uomo si siederà alla destra della potenza di Dio” (Lc 22, 67-69). Da questa risposta Gesù fa chiaramente intendere ai giudici che essi non lo interrogano spinti dal desiderio di conoscere la verità ma soltanto per trovarlo in fallo, e ribadire la condanna. Tuttavia non tralascia di aggiungere: “Da questa assemblea che ha congiurato ai miei danni e da questi legami che stringono i miei polsi, io saprò liberarmi; e a dispetto di tutto quel che si potrebbe escogitare contro di me, io andrò a sedermi sul trono dell’Onnipotente, alla destra di Dio”. “Allora gli chiesero tutti assieme: ‘Tu allora saresti il Figlio di Dio’? (Lc 22, 70). La conclusione tratta dal sinedrio era di una rigorosa esattezza. L’espressione uscita dalle labbra del Cristo – “sedersi alla destra di Dio”- non poteva convenire a una semplice creatura. Perciò i giudici compresero perfettamente che dicendo che lo avrebbero visto “seduto alla destra della potenza dell’Altissimo”, Gesù si attribuiva il medesimo onore che appartiene a Dio, lo stesso potere, la stessa maestà, e per conseguenza, la stessa natura di Dio. “E Gesù rispose: ‘È come avete detto: io lo sono!'” (Lc 22, 70). Gesù ripete le stesse parole e con identica solennità la confessione che aveva rilasciato nella seduta notturna. All’interrogatorio di Caifa: “Sei tu il Cristo, Figlio di Dio?”, egli aveva risposto: “Tu lo hai detto: lo sono!”. E ora che il sinedrio gli chiede unanime: “Tu allora saresti il Figlio di Dio?”, risponde: “Voi lo avete detto: io lo sono!”. IL SINEDRIO RINNOVA LA SENTENZA DELLA VIGILIA “Ed essi ripeterono: ‘Che bisogno abbiamo di altre testimonianze? Lo abbiamo sentito dalla sua stessa bocca!'” (Lc 22, 70-71). In questo modo la seconda assemblea generale ha di che confermare la precedente sentenza. Tutti i membri del sinedrio pronunziarono una identica sentenza di morte; e i giudici, bramosi di passare all’esecuzione dell’imputato, dichiararono chiusa la seduta. Ogni ulteriore esame, ogni indagine, per quanto minuziosa, sarà ormai inutile. Il procedimento è chiuso, uomini del sinedrio, ma non l’accumularsi delle vostre scorrettezze! Siamo infatti a una ventiquattresima irregolarità poiché da parte vostra, come pure vi era stata nella notte, ecco un’altra votazione in massa, cosa assolutamente proibita dalla Legge: “Ciascuno, a suo turno, dovrà esprimersi assolvendo o condannando” (Mischna, trattato “Sannédrin” c. 5, 5). E un’ennesima irregolarità viene adesso ad aggiungersi alle altre, poiché avevate l’obbligo di controllare con attenzione la risposta dell’accusato. Avendo voi postagli la questione: “Sei tu il Figlio di Dio?” e avendo egli risposto: “Sì, lo sono!”, voi avevate il dovere di sottomettere immediatamente al più accurato esame le due proposizioni contenute nella risposta data dal Cristo: 1) 1l Messia dev’essere Figlio di Dio?”, e 2) Gesù è Figlio di Dio?”. Non avendolo fatto, voi avete compiuto una venticinquesima irregolarità. E anche una ventiseiesima, poiché voi avete pronunziato immediatamente una sentenza che, in ogni caso, doveva essere differita. Quella infrazione giudiziaria, già commessa nella vigilia, voi la ripetete questa mattina. Per dargli una forma regolare, la sentenza avrebbe dovuto essere rimandata al sabato mattina. Il processo, infatti, iniziatosi nella notte tra il giovedì e il venerdì, faceva parte del giorno di venerdì, giacché è usanza degli ebrei contare un giorno da un tramonto all’altro. Il primo giorno del processo andava dal giovedì sera al venerdì sera. Orbene, essendovi l’obbligo (lo abbiamo di già fatto notare) di lasciar trascorrere una notte d’intervallo tra la fine di un dibattimento e l’enunciazione della sentenza […], ne seguiva che non poteva essere né il giovedì sera, né il venerdì mattina, né il venerdì sera, ma unicamente il sabato mattina che la sentenza poteva essere regolarmente emessa. Ma questa non è l’ultima delle irregolarità: ve n’è ancora un’altra: la ventisettesima. La decisione di condannare a morte Gesù è invalida poiché era stata emessa in un locale proibito, nella casa cioè di Caífa, mentre doveva essere pronunziata nella sala delle pietre squadrate, obbligatoriamente stabilita per ogni giudizio criminale, sotto pena di nullità: “Non poteva esservi condanna a morte se non quando il sinedrio sedeva nella sala prefissata, ossia nella sala delle pietre squadrate” (Talmud di Babilonia, trattato “Abboda-Zara o dell’idolatria”, c. 14).. Gli autori talmudici han ben compreso la gravità di quest’ultima irregolarità se si sono sforzati di precisare in vari luoghi che Gesù sarebbe stato condotto, giudicato e condannato nella “sala delle pietre squadrate”, dove il sinedrio si sarebbe recato espressamente per compiere quest’atto. Perciò si legge nelle “Thosephthot o Aggiunte” del Talmud di Babilonia, (trattato “Sanhédrin” c. 4, 37, recto): ‘Va messo in chiaro che ogni volta che lo richiedesse una causa, il sinedrio tornava nella sala Gazitk o delle pietre squadrate, come fu fatto nella causa contro Gesù e altre simili”. Però non è null’altro che una supposizione ridicola, immaginata sei secoli più tardi, nel tentativo di discolparsi. La verità storica infatti stabilita dal Vangelo e confermata dal rapporto di testimoni oculari assicura invece che Gesù venne condotto, giudicato e condannato in casa di Caifa. E nessuno potrà mai smentire o cancellare la breve ma perentoria espressione che l’apostolo Giovanni usa: “Essi condussero Gesù dalla casa di Caifa al pretorio di Pilato! ” (Gv 18, 26). E dunque, la cosa è fatta: il Cristo è stato condannato! I sacerdoti, gli scribi e gli anziani si precipitano dai propri posti; e mentre la vittima viene legata, si lanciano correndo dove si trova Pilato per richiedere la ratifica della sentenza e far eseguire la condanna (cf Mt 27, Mc 15, 1; 2; Lc 18, 1; Gv 18, 28). Molte e commoventi cose si potrebbero porre in luce sulla colpevolezza della folla che, istigata dai sacerdoti e dagli scribi, prese a reclamare quanto prima la morte di Gesù. Ma oltre a essere oggetto di un altro scritto, dobbiamo far attenzione a non uscire dal tema che ci siamo proposti, e cioè stigmatizzare il sinedrio, un’assemblea di iniqui. È stato appunto il sinedrio che ha chiesto la comparizione del Cristo, che lo ha giudicato e infine condannato. La casa di Caifa, in cui costui ha presieduto la riunione, si è tramutata in un antro inquinato dalla più assoluta mancanza di giustizia: le enormità che stanno per verificarsi nel pretorio non ne saranno che le conseguenze. È perciò il sinedrio, di cui abbiamo fin qui studiato con cura le persone e gli atti giudiziari, che dev’essere valutato in maniera definitiva! CONCLUSIONE Lo scopo che ci siamo prefissi nel prendere in esame il sinedrio che giudicò il Cristo ha un duplice aspetto: esaminare dapprima i suoi membri, quindi il valore degli atti dibattuti. Adesso che siamo giunti al termine di molte, (e a nostro avviso, possiamo aggiungere leali e scrupolose) ricerche, cosa abbiamo ottenuto? Nei membri che la componevano, questa corte d’assise che si chiama sinedrio ci si è presentata come un coacervo di uomini per la maggior parte indegni delle funzioni che erano chiamati a svolgere. Privi di pietà, di dirittura e di valore morale: perfino gli storici della nostra stessa nazione li hanno bollati. Nei loro atti giudiziari, – ossia nella loro maniera di procedere – abbiamo constatato un numero impressionante di enormità, ben ventisette irregolarità, delle quali sarebbe bastata una sola per rendere invalido il giudizio! Quelle irregolarità le abbiamo individuate confrontando l’operato del sinedrio con il diritto penale ebraico allora in vigore; e qualora lo commisurassimo con il più raffinato diritto dei popoli moderni, ne scopriremmo chissà quante di più. Nessun valore morale nei giudici, nessun valore giuridico nella loro sentenza; ecco, israeliti, la valutazione che siamo costretti a emettere (e lo stesso farebbe qualunque spirito sincero, qualsiasi coscienza onesta) dopo aver letto queste pagine. Ebbene, lasciateci chiedere: dinanzi a simile spettacolo: non esiste per ogni ebreo una ragione d’onore, diremmo di più, una ragione di giustizia che obbliga a non ratificare il giudizio del sinedrio, prima d’aver esaminato personalmente chi era in realtà il Cristo? Di certo, egli non doveva essere un uomo ordinario: lo dimostra da sola l’inusitata procedura che fu seguita nei suoi riguardi. Quando, in un processo, una irregolarità viene a essere individuata, da sola non equivale a una giustificazione dell’imputato, potendo trattarsi di una disattenzione o di un caso. Però se, nell’intera trama di una procedura, da un capo all’altro di una seduta in tribunale, vedessimo apparire e accavallarsi l’una all’altra ben ventisette irregolarità, tutte gravi, tutte scandalose, tutte ostinatamente prodotte dagli attori, non è questa una prova irrefragabile che l’accusato, vittima di simili maniere di procedere, doveva essere una persona eccezionale?… Dunque, chi poteva essere questo eccezionale accusato?… Il giorno in cui egli fece l’ingresso trionfale (ne mancavano cinque al processo), dei giudei venuti da lontano per partecipare alle feste di Pasqua, provenienti dal paese dei Parti, dalla Media, dalla Persia, dalla Mesopotamia, dal Ponto, dalla Frigia, da ogni località dell’Asia, dai confini della Libia, della Cirenaica, da Creta, dall’Egitto, dall’Arabia e da Roma, questi giudei, davanti allo spettacolo del suo trionfo e all’entusiasmo popolare, si chiedevano, ciascuno nella propria lingua: “Quis est hic: chi è mai costui?” (Mt 21, 10). Tale questione, israeliti, lo spettacolo dell’ingiustizia [di cui il Cristo sarà presto vittima], più ancora che quello del trionfo, vi pone innanzi oggi una precisa domanda “Chi è costui?”, nei cui riguardi il sinedrio ha violato ogni forma di giustizia… “Chi è costui?”, che non ha opposto altro che dolcezza alla violenza e ai soprusi dei propri giudici… “Chi è costui?”, che ha bevuto l’amara acqua del torrente Cedron come Davide, ed è stato venduto come Giuseppe… A diciannove secoli di distanza e quando gli animi si sono placati, è una questione che ogni ebreo leale, tenendo nelle mani la Bibbia, può agevolmente risolvere. Quanto a noi, vostri fratelli nella carne, dopo vent’anni di studi oggi sappiamo chi egli sia; e non ci torna mai alla memoria e agli occhi una pagina ispirata della Bibbia, che ci permetterete di collocare davanti ai vostri sguardi. Meditatela, quella pagina, o israeliti; essa vi rivelerà chi fu in realtà il condannato dal sinedrio, mentre vi aiuterà a conoscere quale dev’essere, qui in terra l’ultimo atto del popolo giudaico prima di entrare con le sue tribù e le sue famiglie nella terra promessa della Chiesa, e più tardi nella terra promessa dell’eternità. Ed ecco finalmente la pagina cui abbiamo fatto cenno, del profeta Zaccaria: “In quel giorno il Signore proteggerà gli abitanti di Gerusalemme; il più debole di loro diverrà come Davide medesimo e la casa di Davide come Dio. Effonderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di implorazione: essi si volgeranno a me che hanno trafitto. E piangeranno su di lui come si piange per un figlio unico; faranno per lui amaro cordoglio quale si fa per un primogenito. In quel giorno si leverà un gran pianto in Gerusalemme […]. Il paese sarà in pianto, clan per clan: il clan della casa di Davide da sé e le loro mogli da sé; a clan della casa di Natan da sé e le loro mogli da sé; il clan della casa di Levi da sé e le loro mogli da sé; il clan della casa di Simei e le loro mogli da sé: Così tutti gli altri clan: ogni clan da sé e le loro mogli da sé […] E se qualcuno gli domanderà: ‘Che sono quelle cicatrici sopra le tue mani?’, egli risponderà: ‘Quelle che ho ricevute in casa dei miei amici'” (Zc 12, 8-14; 13, 6-9). Davanti a questa descrizione, davanti a questo dialogo e alle piaghe di quelle mani e di quei piedi, chi di voialtri, Israeliti, non riconoscerà, se agisce in buona fede e se la grazia si degnerà di aiutarlo, l’Uomo-Dio condannato dal sinedrio? Poiché le Scritture vi dicono il suo nome: era il Messia, il Signore! I nostri padri, purtroppo, non lo riconobbero. Ma i loro figli un giorno lo potranno riconoscere; ognuno di essi dirà: “Signor mio e Dio mio! ” E, nel riconoscerlo, gli chiederanno che conceda loro di poter contemplare ancora le piaghe delle mani e dei piedi; e su quelle piaghe lasceranno scorrere torrenti di lacrime. E la terra intera si commuoverà a quello spettacolo; tutti gli uomini si uniranno al pianto, “famiglia per famiglia”. Quel giorno meraviglioso per il commosso riconoscimento, a noialtri che scriviamo queste righe non sarà concesso di vederlo qui in terra: l’avremo abbandonata da molto tempo. Ma, dall’alto del cielo, dove Dio, così speriamo, ci farà la grazia di riceverci, ci uniremo al nostro popolo convertito e pentito. In cielo non vi sono lacrime: per questo motivo vi chiederemo in prestito un poco delle vostre, per offrire al Signore le lacrime della casa di Davide, della casa di Natan, della casa di Levi, della casa di Simei, quando finalmente albeggi il giorno di quel collettivo singhiozzare (“cosa sono quelle ferite che hai sulle mani?”); in quel giorno, sì, ricordatevi di questi due figli di Israele, sacerdoti di Gesù Cristo, che scrissero queste pagine. E in cambio delle ore che abbiamo dedicato a questo lavoro, versate in omaggio qualcuna delle vostre lacrime! Versatele nel suo nome! PER CHRISTUM ET CUM CHRISTO PAX SUPER ISRAEL Testo tratto da: Agostino e Giuseppe Lémann, L’assembea che condannò il Messia, Firenze: LEF, pp. 17 e 98-130. Flos Carmeli

Sindoni-çarçafi shêjt i Torinos


Si pjesë e meditimeve për Javen Shêjte ku përkujtojmë vuejtjat e Shelbuesit tonë të dashtun, Zotit tonë JEZU-KRISHTIT, po paraqes ktu poshtë nji studim shumë interesant mbi reliken e Sindonit (çarçafit) Shêjt të Torinos, t'aprovuem zyrtarisht prej Kishës Katolike qysh n'kohen e Papës Piu XI, që mban gjurmët misterioze të Pasionit t'përgjakshëm të Zotit tonë JEZU-KRISHTIT, t'vuejtun me aq dashamirsí e dashtni hyjnuere për shelbimin e njerzve. "Zoti aq shumë e deshti boten, saqë çoi Birin e Tij të Vetëm, në mnyrë që kush t'besojë në Birin mos të bjerret (humbet) por t'ketë jeten e pasosun..." (Joan. III, 16) https://archive.org/download/LAS.SINDONEELASCIENZAMEDICA/LA%20S.%20SINDONE%20E%20LA%20SCIENZA%20MEDICA.pdf Ata që kanë nevojë për përkthim, t'shofin kyt sit : translate.google.com

Disa mendime mbi masonerinë


Si komunistat ashtu edhe masonët, të brymosun me rrênat iluministe e gnostiko-kabalistike të anmiqve ma t'egër t'Kishës, të rêndit kushtetues dhe të vetë arsyes së shndoshtë njerzore, t'vërteten e njoftun objektive e quejnë fanatizëm dhe mbrojtsit e saj, fanatikë, pra mbrojtës të verbët të diçkajet. Për masonët, t'cilët e konsiderojnë vedin "t'ndriçuem" dhe udhëheqsa t'lindun (sic), [me udhhjekë trushplamë të tjerë si ata, pa dyshim], e vërteta absolute objektive nuk egziston : egziston veç e vërteta e logjeve, "e vërteta" e krènave të tyne, "e lirë prej dogmave e moralit mbrapanik", "e vërteta" që ndërton realitetin e vet personal simbas parullës "besoj, pra jam", e vërteta e pamjes së botës me sytë e tu. Pra simbas masonve, kriteri i vetëm me gjetë e me ndjekë "të vërteten" asht botkuptimi personal i gjithsejcilit (sic) : "la déesse Raison - hyjníja Arsye", simbas zhargonit blasfemues të frank-masonve, e cila për tà u doka me kênë e plotfuqishme, e pamvarun dhe sovrane ; për masonët, jashtë t'natyrshmes apo natyrores që mundet me u perceptue prej arsyes njerzore nuk egziston as Revelacjon hyjnor, as dogma fetare e biles as Zoti, ashtu si beson e predikon Kisha hyjnore Katolike ; n'fakt "doktrina masonike", që në t'vërtetë do t'duhej quejtë "dokrra masonike", nuk beson nji Hyj t'Gjithpushtetshëm transhendent, jashtë kohës, jashtë hapsinës e jashtë arsyes, si beson e predikon me të drejtë Kisha shejte Katolike, por, ma t'shumtit, nji lloj "hyji" panteist natyruer !!!, mbasi fort - të dijtunit e fort - t'ndriçuemët masonë ndalen te kufini i arsyes. Për ta nuk egziston as pavdekshmënija e shpirtit, as mrekullitë e pamohueshme e të msueme prej Kishës hyjnuere Katolike, - mrekullí të vërtetueme tash sa shekuj prej vetë shqisave e arsyeve njerzuere -, e as dogmat e tjera shejte katolike ; kshtu p.sh., me dishiren me korruptue e me degjenerue sa ma shumë njerëz, masonët nuk hezitojnë me pranue n'rangjet fillestare të logjeve edhe besimtarët panteista [për panteistat "hyji=natyren"] edhe ato ateista, në mnyrë që ma vonë me i shkrí të dy grupet në nji natyralizëm puritan : tue u bazue "n'hyjninë Arsye", n'kjoft se dy vetë kanë të drejtë kur mbrojnë dy dokrra që kundërshtojnë njêna-tjetren, atherë asnjêni nuk ka të drejtë : rezultati i pashmangshëm asht asgjesimi i të dyja dokrrave. N'parentezë, të njêjtin asgjesim andrrojnë masonët me përhapjen e ethshme që janë tue i ba dokrrave të lirisë fetare të ndërgjegjes dhe ekumenizmit, të tipit Vatikan II, me anen e krye-masonit Bergoglio-Françesku. Nji i çmendun thotë se 2+2 bajnë 10 ; nji i çmendun tjetër thotë se 2+2 bajnë 20 apo 40 apo sa t'duesh ; nji iluminist pohon se qiella asht ngjyrë jeshile, kurse nji tjetër e kundërshton dhe thotë se asht ngjyrë portokalli ; nji skeptik absolut kantian (nji lloj kategorije të çmendunish absolutë), pvetë vedin : a jam i sigurtë se egzistoj ?, kurse nji tjetër i meçëm kantian thotë : a jam i sigurtë se nuk egzistoj ? Njeni thotë se ferri nuk egziston, nji tjetër e kundërshton tuej thanë se patjetër që ferri egziston ; nji sabeist (adhurues hyjesh e planetesh) thotë se planeti jupiter asht zot ; nji indian thotë se lopa asht zot ; nji afrikan thotë se majmuni asht zot ; nji lituanez thotë se pema asht zot (dikur lituanezët adhurojshin pemët) ; nji sirian thotë se peshku asht zot, etj, etj, etj, e marríja nuk ka fund. Simbas dokrrës masonike të lirisë fetare të ndërgjegjes, sejcili prej t'nalt-përmendunve ka të drejtë me besue simbas ndërgjegjes. A paskan tanë kta të drejtë, edhe pse tanë kundërshtojnë njeni-tjetrin ??? Tanë kta individë shofin boten me sytë e vetë : Tanë kta paskan të drejtë ??? Për t'arsyeshmit asht e kjart pra se arsyeja personale nuk asht kriter i pagabueshëm njohjeje. Për ma tepër, jo vetëm që masonerija përpiqet me drejtue gjithçka drejt natyralizmit, por gjithshtu vazhdon punen nën rrogoz me shkatrrue kushtetutat, qeveritë, kufijtë, dhe punon pa prâ për ndërtimin e Urdhnit të Ri Botnuer judeo-masonik të njerzve planetarë-skllevën e idiotve të dobishëm me tana mnyrat e mundshme, përfshi ktu krimet e vrasjet e kobshme. N'fakt, vetë statutet e masonerisë dekretojnë vdekjen për pjestarët - "tradhtarë" që zbulojnë sekretet e masonerisë apo për ata që kundërshtojnë urdhnat e superjorve. Tuej pa boten me sytë e nji arsyeje të shndoshë, të ndershme dhe vertè të lirë për me kërkue të vërteten objektive, asht e mujtun me demonstrue si egzistencen e nji Hyji Krijues transhendent ashtu edhe vërtetsinë ekskluzive të Doktrinës hyjnore Katolike. http://www.intratext.com/IXT/ITASA0000/_IDX026.HTM Le cinque prove della esistenza di Un Dio Onnipotente trascendente: 1. Ex motu (Dal moto : tutto ciò che si muove esige una causa prima, perché come dice Aristotele Non si può andare all'infinito nella ricerca delle cause); 2. Ex causa (Dalla causa : se ogni effetto abbisogna di una causa, dovrà esserci anche una Causa prima, cioè Dio); 3. Ex contingentia (Dalla contingenza: tutte le cose esistono nonostante che potrebbero non esistere; pertanto non avendo in se stesse la ragione della loro esistenza, rimandano ad un essere necessario, che invece ha tale ragione); 4. Ex gradu (Dal grado : avendo le cose vari gradi di perfezione, solo un grado massimo di perfezione rende possibile gli stadi o perfezioni intermedie); 5. Ex fine (Dal fine : tutte le cose nell'universo sono ordinate secondo uno scopo; pertanto deve esserci certamente una Intelligenza che le ha ordinate e le ordina in tal modo). (Santo Tommaso d'Aquino, Summa Theologica, P. I, Q. 2, Art. 3). « E për njimend, idhními (zemrimi) i Hyjit shpërthen prej Qiellit kundër çdo idolatríje dhe padrejtsíje të ktyne njerzve që mbajnë peng të drejten e Zotit në padrejtsí, sepse çka mundet me u njoftë mbi Hyjin asht e shpalosun për ta, sepse Hyji ua ka manifestue. E me t'vërtetë, perfeksjonet e Tija t'padukshme janë ba të dukshme qysh prej krijimit të botës, nëpërmjet njohjes që kto vepra përçojnë ; në t'njêjten mnyrë janë ba të dukshme edhe fuqija e Tij e përjetshme dhe hyjnija e Tij : prandej, ata janë t'pafalshëm, sepse tuej e njoftë Zotin, nuk I kanë dhanë lavdí si Hyj dhe nuk I kanë thurë akte falenderimit, por janë çthurë në mendimet e tyne dhe zemra e tyne asht errsue. Kshtu, tuej thanë se ishin të urtë, ata janë bâ të çmendun, dhe kanë zvendsue lavdinë e Hyjit t'pakorruptueshëm me nji figurë që përfaqson njirin e korruptueshëm, dhe zogjtë, dhe katërkambshat dhe zvarranikët. » (Prej Letrës së sh'Palit Apostull shkrue Romakve I, 16-32)

Kundër modernízmit dhe shkatrrimit të Traditës Katolike


Objekcjon : "Kisha Katolike nuk asht ma Kisha e Mesjetës; Kisha asht tue u reformue, e kjo reformë ka me prekë rolin e grave e shugurimin e tyne, kontraceptivin, abortin, pranimin e homoseksualve e heteroseksualve në Kishë, ekumenizmin me kishat dhe besimet e tjera, etj. N'kjoft se Kisha nuk i realizon, thirrja "indinjonju" ka me u përhapë edhe mbrenda Kishës e ka me i imponue reformat prej poshtë..." Përgjigje : Kateshizmi elementar katolik, ashtu si edhe lutja thelbsore "Besojme" mson se Kisha e JEZU-KRISHTIT asht NJI, SHEJTE, KATOLIKE dhe Apostolike ; pra NJI në Fé e moral ; n'fakt anmiqtë e Kishës quejnë fanatikë ata që mbrojnë kto të vërteta themelore të Revelacjonit hyjnuer që nuk ndryshojnë as me kohen e as me zhvillimet njerzore, ashtu si Hyji i Gjithpushtetshëm që i ka zbulue nuk ndryshon. « Doktrína e Fèsë Katolike, e cilla âsht e zbulúeme prej vetë Zotit, nuk i âsht paraqítë arsýeve njerzuere për përfeksioním. Kjo doktrínë nuk âsht nji sistem filozofík, por nji depozítë hyjnore e besueme Nuses' KRISHTIT, Kishës Katolike, n'mnýrë që ajo t'a rúejë me besnikní dhe t'a interpretójë me pagabueshmëní. Për rrjedhójë, kuptimi i dógmave shêjte katolike duhet me u ruejtë përjetsisht njashtû si e ka dhânë nji herë e përgjithmónë Kisha Shêjte Katolike. Ky kuptim nuk duhet me u harrue kurrë me pretékstin e nji kuptimi mâ t'thêllë të t'vërtetës. » (Konçíli i Vatikanit, Konstitucioni "Dei Filius", Kapitulli IV, vjeti 1870) « N'kjóftë se ndonjí persônë thotë se prej influèncës dhe zhvillímit të shkéncave, msímeve t'Kishës Katolike ka me iu dhânë në t'àrdhmen nji kuptim tjetër prej atij kuptimi që Kisha Katolike ia ka dhânë apo ia nep sod, aj persônë kjóftë mallkue. » (Konçíli i Vatikanit-1870, Kapitulli 4, Kanoni 3) « SHPIRTI-SHEJT nuk iu premtue pasardhsve të sh'Pjetrit që, prej zbulimit të Tij hyjnuer, ata të shpallshin nji doktrinë të re, por me ndihmen e Tij, ata të mbajshin të pandryshueme dhe të shpjegojshin me besnikní zbulimin hyjnuer apo depoziten e Fesë katolike të trashigueme qysh prej kohës së Apostujve... » (Dekretet e Konçilit të Vatikanit, "Mbi msimin e pagabueshëm të Pontifit Romak-Papës", Konstitucjoni i parë dogmatik mbi Kishen e KRISHTIT, Sesjoni i katërt, 18 Korrik 1870) « O Timoté, ruej Traditen, tuej shmangë të rejat profane të fjalve dhe kontraditat e nji shkence që mban në mnyrë të rrême kyt êmën. Disa kanë hupë Fenë sepse kanë praktikue kto t'reja e kto kontradita. Hiri i Zotit kjoft me ty! Amen. » (1 Timoteut 6:20-21) « Prandej, vllâzen, qëndroni t'patundun dhe rueni e mbani Traditat që keni msue, si prej fjalve ashtu edhe prej letrave t'mija. » (Prej Letrës së II të sh'Palit Apostull drejtue Tesalonve 2:14) Dhe në kyt Kishë Katolike híhet dhe rríhet me Fenë hyjnore Katolike, e cila asht nji dhuntí qielluere që na shtyn me besue gjithçka mson e beson kjo Kishë Katolike, sepse asht vetë Hyji që ia ka zbulue dhe Hyji nuk mundet as me gabue e as me na shtye në gabim. Ata që përqafojnë të rejat moderniste që përmende ti, ata mohojnë dhuntinë mbinatyrore të Fesë Katolike dhe dalin vetë JASHTE Kishës Katolike, ku rríhet veç tuej mbajtë Fenë Katolike e tuej ndigjue gjithçka që mson pjesa msimdhanse e Kishës Katolike (Papa+ipeshkvijt). Vetë JEZU-KRISHTI urdhnon me ndigjue gjithmonë kyt Kishë Tijen : « N'kjoft se vllai jot nuk ndigjon Kishen, atherë ai kjoft për ty si publikani dhe pagani. » (sh'Mateu 18:17) E n'kjoft se JEZU-KRISHTI m'urdhnon me ndigjue gjithmonë Kishen, pa kufizime kohet apo territorit, atherë rrjedhimisht kjo Kishë nuk mundet kurrë me gabue në msimin e saj dhe me shtye besimtarët drejt Ferrit. Ata pra që msojnë blasfemat që përmende, ata vetë ndahen prej Kishës Katolike dhe nuk e përfaqsojnë até kurrsesi. Si përmbledhje të ksaj që shkrova po citoj nji letër sa të vjetër (shekullit IV) por edhe aq shumë aktuale të njênit prej katër Etënve bizantinë, sh'Athanasit : « Zoti ju ngushllofte !... Ajo shka ju trishton edhe jue asht fakti se te tjeret kane pushtue kishat, me anen e dhunes, nderkohe qe ju jeni jashte tyne. Asht fakt se ata kane lokalet (ndertesat) por ju keni Fene apostolike. Ata munden me pushtue kishat tona, por ata jane jashte Fese se vertete Katolike. Arsyetoni : çka asht ma e randsishme, vendi apo Feja ? Feja e vertete, natyrisht. Ne kyt lufte, kush ka hupe, kush ka fitue, aj qe zotnon vendin apo aj qe ruen Fene ? Vendi, asht e vertete, asht i mire kur aty predikohet Feja apotolike dhe asht shejt n'kjoft se gjithshka aty bahet shejtnisht... Ju jeni t'lumet, ju qe rrini ne Kishe nepermjet Fese, ju qe mbroni me guxim themelet e Fese qe keni trashigue prej Tradites apostolike dhe n'kjoft se, disa here, nji xhelozi e terbueme ka dashte me i rrxue kto themele, ajo nuk ia ka mbrrite qellimit : flas per ata qe jane nda prej ktyne themeleve ne kohen e krizes aktuale. Kerkush, kurre, nuk ka me triumfue kunder fese tone, vllaznit e mij te dashtun. Dhe ne besojme se Hyji ka me na i kthye nji dite kishat tona. Kshtu pra, sa ma teper qe ata perpiqen me na i xane vendet e kultit, aq ma teper ata ndahen prej Kishes Katolike. Ata pretendojne se perfaqsojne Kishen Katolike, por, ne te vertete, vete ata e perjashtojne vedin prej Kishes Katolike dhe ecin drejt mallkimit. Katoliket besnik ndaj Zotit dhe Tradites shejte Katolike, edhe sikur t'jene reduktue ne nji grusht njerzish, bash ata jane Kisha e vertete e JEZU-KRISHTIT. » (Coll. Selecta SS. Eccl. Patrum, Caillau et Guillou, vol. 32, pp. 411-412) Fjalët e masipërme të shêjtit Athanas, ipeshkvit t'Aleksandrisë dhe njênit prej Etënve ma të mëdhaj të Kishës Katolike, kampion [fanatik i tërbuem, simbas anmiqve të Kishës] dhe mbrojtës i flakët i Fesë shêjtë t'KRISHTIT Zot, janë ma aktuale se kurrë ma parë. Akuzat e tija të drejta kundër heretikve arianë që kishin pushtue ndërtesat e kishave katolike në shekullin e IV-t, i duhen drejtue sod n'shkekullin XXI-t edhe partizanve femohuesa të pseudo-konçilit të II te Vatikanit dhe krye-masonit Bergoglio-Françeskut, që kanë pushtue ndërtesat e kishave katolike dioqezane dhe Vatikanin, tash gadi 50 vjet, tuej pretendue paturpsisht se përfaqsojnë Kishen Katolike të Zotit tonë JEZU-KRISHTIT.

Disa mendime mbi masonin socjalist Jorge Carrera Andrade dhe njeriun e tij planetar


Jorge Carrera Andrade (1903-1978), bir i njenit prej gjykatsve të Gjyqit suprem t'Ekuadorit, njihet si nji prej themeluesve të socializmit ekuadorian. ("Encyclopaedia universalis") Poeti n'fjalë ka kênë sekretar i përgjithshëm i Partisë socialiste ekuadoriane (1927-1928), sekretar i Senatit dhe Kongresit, konsull ekuadorian në Peru, France, Japoni, SHBA, minister "plenipotenciario" n'Angli dhe delegat në UNESCO. (Biografías y Vidas. «Jorge Carrera Andrade». Consultado el 5 de febrero de 2013.) Natyrisht, nji karrierë kaq e suksesshme politike nuk mundet me u kuptue pa antarsinë e tij në logjet e Judeo-Masonerísë ; e pernjimend, Andrade ishte nji prej masonve ma të njohun të Ekuadorit : "Nos orientan los ejemplos de Pedro Moncayo, Vicente Rocafuerte, Juan Montalvo, José María Urbina, Pedro Carbo y Eloy Alfaro, que combatieron a las tiranías y se esforzaron por construir un país mejor de: José Peralta, Roberto Andrade, Pio Jaramillo Alvarado, Jorge Carrera Andrade, Benjamín Carrión, Gonzalo Zaldumbide y Alfonso Rumazo González, que glorificaron a la cultura ecuatoriana, y de militares patriotas como Ulpiano Páez, Julio Román, Luis Telmo Paz y Miño y Rafael Morán Valverde, el héroe naval de Jambelí." (Gran Oriente del Ecuador) Botkuptimi i tij masonik, pra socialist, kreacionist, futurist e rrjedhimisht antikatolik e antikristjan, asht pasqyrue gjansisht edhe në poezitë e tija, dhe njiri planetar ("Hombre planetario") që Andrade na paraqet asht stereotipi masonik e rrjedhimisht antikristjan i të ardhmes : njiri human, pa Fé, pa Atdhé, pa kufí, "banor i gurve pa kujtesë", si e thotë edhe aj vetë, pra trueshplami i sistemit t'ardhshëm "novus ordo seclorum", pa t'kalueme, pa t'ardhme; njiri i tana gjuhve e tana rracave që bashkohen n'kyt stereotip masonik, vegël e përsosun e manipuleshme n'duert e elitës ndërkombtare judeo-masonike : "Unë jam indiani i Amerikës, metisi, i verdhi, i ziu: unë jam të tanë njerëzit e planetit."; njiri-shtazë i tanvet por edhe i kërkujt : "njeriu ynë i ri, vepra më e shkëlqyer e Partisë". :) Për kyt njiri-shtazë apo për rracat e shtazënueme, që po i shofim sod përditë e ma shumë, ka folë me aq largpamsí Monsinjor Delassus e bashkë me tè edhe Papa sh'Piu X : « Qëllim i tyne (talmudistave e judeo-masonve) âsht dominimi i botës. Për me vendosë kyt dominim, nuk mjafton vetëm me eliminue patriotizmin në zemrat e njerzve, duhet gjithashtu, e mbi gjithshka, me u fikë besimin fetar, sepse asgjâ nuk i nep njirit aq shumë dinjitet dhe pavarsí sesa bashkimi i tij me Zotin përmes Fesë dhe dashnisë hyjnuere. Simbas Sinagogës, duhet me i shtye njerzit drejt asaj që njeni prej tyne e ka quejtë krejt mirë "Kisha e mendimit të lirë fetar". « Admironi kyt afrimitet : mendim i lirë dhe fé. Ata (talmudistat) e dijnë se njiri âsht natyrisht fetar dhe se nuk mundet me u shkatrrue kjo natyre e tyne. Duhet pra me u knaqë dhe mjafton me i drejtue njerzit e tana feve drejt nji besimi të vagët (të turbullt), ku sejcili ka me besue çka të dojë e ka me i dhanë hyjnisë kultin që i pëlqen. "Sejcili, simbas ndërgjegjes s'tij, ka me i ruejtë praktikat e kultit që i nep "zotit" të vetëm dhe jomaterial ose ka me i reformue ato simbas principeve të nji judaizmi liberal dhe humanitar."Falë shtrimjes së ksaj "lirije praktike... progresi ka me ecë përpara dhe feja universale ka me u vendosë pa bezdisë asnji ndërgjegje." (Arshivat izraelite, III, faqet 118-119, vjeti 1868) « ... Feja e vërtetë âsht Feja Katolike. Në vend të Katoliçizmit, "judaizmi liberal e humanitar" don me vue nji "kishë katolike" simbas mnyrës së tij, ku tanë njerzit të munden me hî e ku të tanë të jenë dakord sepse kërkujt nuk ka me iu imponue asnji dogëm. "Asht veçanarisht e domosdoshme me ndâ moralin që i përket të tanvet me dogmen fetare të veçantë të çdo besimit." (Idem, XI, faqe 504, vjeti 1867) « "Aleanca judaike universale nuk ndalet vetëm te kulti jonë por ajo i drejtohet tana kulteve. Ajo don me penetrue të tana besimet ashtu si ajo gjindet në tana vendet, n'mnyrë që njerzit inteligjentë, pa dallim fejet, të bashkohen në kyt Shoqni judaike universale, qëllimi i së cilës âsht aq fisnik dhe aq civilizues (sic)... Të tana fetë që kanë për bazë moralin dhe në krye "zotin", janë motra dhe duhet të jenë miq me njena-tjetren. Me rrxue pengesat që ndajnë atë që nji ditë duhet të bashkohet âsht misioni i madh dhe i bukur i Aleancës judaike universale. Të ecim përpara me guxim dhe të vendosun në rrugën që na âsht hapë. (sic)" (Idem, XXV, faqet 514-520, 650-651, vjeti 1861) « Na druejmë se rezultati i ktij konfuzioni në punë, përfituesi i ktij aktiviteti social kozmopolit, mund të jetë vetëm nji demokrací, që nuk ka me kênë as katolike, as protestante e as çifute, nji fé (ashtu si thojnë edhe vetë drejtuesit e lëvizjes së Sionit) mâ universale se Kisha Katolike, që ka me mbledhë tanë njerzit, të bamë s'fundit vllazen e shokë proletarë, në "mbretninë e zotit". Nuk punohet mâ për Kishen Katolike, por për humanizmin. « E tashti, të depertuem prej trishtimit mâ të madh, e pvesim vedin se ku përfundoi katoliçizmi i ditëve të para të lëvizjes së Sionit ? Mjerisht, kjo lëvizje dikur aq katolike, âsht xanë peng, në rrugen e saj, prej anmiqve modernë të Kishës Katolike dhe âsht kthye tashma në nji instrument të mjerë të lëvizjes së madhe apostate, e cila âsht e organizueme në të tana vendet për themelimin e nji Kishe universale që nuk ka me pasë as dogma, as hierarkí, as rregull për shpirtin e as frê për pasionet, e cila nën pretekstin e lirisë dhe dinjitetit njerzuer, planifikon me vendosë në botë, n'kjoft se do të triumfote, mbretninë zyrtare të dredhísë, të forcës, të shtypjes së t'dobtëve dhe të atyne që vuejnë dhe punojnë. « Na i njofim mâ mirë sa s'bahet ofiçinat [logjet judeo-masonike] ku përpunohen kto doktrina perverse, të cillat nuk kanë me mujtë me mashtrue shpirtnat largpamës ...» (Sh. T. Papa sh'Piu X, Letra mbi Sionin", 31 Gusht 1910; "Acta Apostolicae Sedis", Vol II, No. 16) « Me rrxue tanë kufijtë, shton Claudio Jannet në vepren e Atë Deschamps, me hjekë tana kombsitë, tuej fillue prej ma t'voglave, drejt nji Shteti t'vetëm, me zhdukë çdo lloj ideje t'patriotizmit, me e bâ t'përbashkët boten mbarë, që i përket tanvet, me prishë, me dredhí apo me forcë, tana traktatet, me përgaditë gjithçka për nji demo(n)kraci të gjanë, ku rracat e ndryshme të shtazënueme prej tana llojeve t'imoralitetit kanë me kênë veç departamente t'administrueme prej logjeve të nalta (masonike) dhe prej Antikrishtit, diktatorit suprem, i bamë për tà zoti i tyne i vetëm : ky asht pra plani i shoqnive sekrete. » (Mgr Henri Delassus, « La conjuration antichrétienne », vjeti 1910, vol. II, f. 596) Katolikët e vërtetë e dijnë mirë ça asht kjo paqe e vllazní masonike, për të cillen shkruen edhe poeti mason Andrade ; asht paqja e vdekjes së virtyteve, e moralit, e Fesë dhe e civilizimit të vërtetë Kristjan, për me u zvendsue me paqen masonike e diktatorjale të heshtjes së frigës, të burgosjes e të vdekjes, e nalcueme mbi gjakun dhe rrënojat e Krishtenimit : « Me shka kena tashma parashtrue, âsht evidente në mnyrë të padiskutueshme se qëllimi i tyne final âsht çrrânjosja totale e të gjithë rendit fetar dhe politik në botë të lindun prej Krishtënimit dhe zëvendsimi i tij me nji tjetër rend në harmoní me mnyren e tyne të t'menduemit. Kjo don me thanë se themeli dhe ligjet e strukturës së re të shoqnisë do të bazohen ekskluzivisht mbi natyralizmin. » (Sh. T., Papa Papa Leoni XIII, "Humanum Genus", 20 Prill 1884; Kundër judeo-masonve) Faza përfundimtare e vendosjes së ktij sistemi të ri nuk lejon mâ kyt bashkjetesë tolerante, që po jetojmë na sod përkohsisht : sod gjindena në nji prej fazave të ndërmjetme drejt instalimit të plotë të rendit të ri "humanitar, paqsuer e vllaznuer", e kto lajka rrêjnë mjerisht t'padijtunit dhe injorantat, që gjinden sod me shumicë n'treg ; por kur të mbrrihet faza finale e vendosjes përfundimtare të Rendit të ri judeo-masonik (New World Order), - dashtë Zoti nuk na len me shkue deri aty -, atherë ka me vlejtë formula origjinale e revolucjonarve judeo-masonë që rrzuen Bastijen e Monarkinë franceze : "liri, barazí, vllazní, ose vdekje" ; po, vdekje, për t'panënshtruemët; ka me vlejtë lufta e egër e kllasave, gjenocidi pa dallim, me parullen "plumbin ballit tradhtarve", ashtu si ndodhi dikur edhe te nà : komunisto-socialistat, që si masonët drejtohen prej të njêjtes dorë të mshehtë : "Aleances çifuto-talmudike universale", shtërnguen vidat pak kah pak... derisa realizuen atè që populli jonë i shkretë e vuejti deri n'palc ; Elita satanike që drejton qeveritë e boten sod planifikon me bâ për tanë boten atè që ka eksperimentue dikur te nà, avash-avash, me durim e kamngulje, tue pune edhe jashtë orarit, po të jetë nevoja ... :) Ktu nuk ka ma tolerancë, por LUFTE, për jetë a vdekje, si kanë jetue, luftue e janë martirizue patriotët e vërtetë të kombit shqiptar : Për Fé e për Atdhé. Hyji na dhaft forcë e guxim me jetue deri në fund si Katolikë të devoçëm, e mos me koritë nderin e baballarve tanë ! Lufta e Katolikut asht thelbsisht shpirtnore, por nuk përjashtohet edhe lufta e drejtë materjale, gjithmone vetmbrojtse, e organizueme prej autoriteteve legjitime kishtare.